Tunisi

Cultura
08/09/2011 –

Tunisi, la disillusione
dopo i giorni dell’euforia

La città è stata la capitale del mondo arabo in rivolta. Ma oggi, caduto Ben Alì e ripresi i barocchismi della politica, la rivoluzione sembra il ricordo d’una fiaba

DOMENICO QUIRICO

Quello che ha dichiarato bancarotta nel mondo arabo è lo Stato. Lo Stato di diritto, uscito già morto dai movimenti di liberazione nazionale e dai falsi socialismi; a cui il ritorno al liberalismo economico non ha ridato certo vita. E ora sono scherniti e turlupinati dai ladri in guanti bianchi di paesi e ambienti dove si conta solo per miliardi e dove il milione è l’unità.

Anche negli Stati arabi dove è consentito un certo grado di libertà di espressione quelli che mancano sono i cittadini: perché non è permessa l’alternanza. Compatti, opachi, senza falde autocritiche o faiblesses estetiche. Reazionari nelle midolla. L’islamismo, questa pericolosa teologia che è risposta a poteri inefficaci e iniqui, talora davvero empi, e reazione alla cultura della modernizzazione, replica e fa argine a questo fallimento dello Stato e delle ideologie progressiste. Anche i rifiuti tornano nell’alambicco, secondo un ciclo metabolico materno-cannibalesco. In questo senso è simile ai fascismi europei del periodo tra le due guerre mondiali. E invece quello che occorre agli arabi è diventare atei in politica.

La storia è vissuta come un peso, una buia vita organica, una serie ininterrotta di insuccessi, un continuum di decadenza. Irreversibile. Come se il gran fuoco si fosse spento già da secoli. Sottintende pessimismo, introversione, angoscia nevrotica. Non è così. Solo cinquant’anni fa il mondo arabo appariva vivace, in movimento, all’avanguardia. Non bisogna risalire agli Abbassidi e al grande Ibn Khaldoun, inventore della sociologia, quando l’universitas araba, con eclettismo universale, riuniva rivoluzionari e uomini di potere, filosofi modernisti e sufi passatisti. La nadha, la rinascita, sbocciava dallo sfacelo dell’Impero ottomano, così simile al patriottismo italiano del Risorgimento; e poi più tardi, finito un altro conflitto mondiale, nel ruolo arabo nel terzomondismo, nella primavera dei popoli divincolatisi dal cappio coloniale. Nasser il rivoluzionario: mai nessun uomo come lui somigliò a un grande albero colpito dal fulmine. Il suo prestigio era immenso e meritato, i popoli hanno atteso, sperato da lui parole che non ha detto, che senza dubbio non poteva dire. E tuttavia fino alla fine ha sollevato al di sopra dei fallimenti il segno che gli era stato affidato: spes unica.

Dobbiamo fare un piccolo mea culpa, noi così scettici. Nel circolo autofagico la primavera araba, sconfinando nella causerie sentimentale e psicologica, ha ridato loro, dopo tanto tempo, il senso di essere protagonisti della storia. Che il mondo osserva, stupito, commosso, preoccupato, come se stessero uscendo e da soli, dall’«età della decadenza», asr al-Inhitat. Respirano, sì, toccano ciò che è la patria, una grazia nobile e leggera, un riso misto alle lacrime, uno scherzo senza fiele. Hanno trovato in queste rivolte così nuove secondo una meravigliosa formula di Barrès, un metodo per «aiutare le loro passioni a gioire di se stesse». Non a caso i protagonisti sono giovani; la giovinezza, quel momento della vita in cui noi poniamo in una creatura l’infinito e in cui una creatura pone l’infinito in noi.

Ma occorre così poco tempo perché la nouvelle vague non sia più così nuova, un’altra ondata si gonfia e già sovrasta. Gli arabi in rivolta febbrile di oggi sono popoli, non rivoluzioni, per quanto non si parli d’altro. La rivoluzione è la conseguenza di un’insurrezione diretta da quadri formatisi nella lotta, capaci di sostituirsi rapidamente a quanto vogliono distruggere. Non si scappa da questo sillogismo. E nei Paesi arabi non c’è nulla di questo enunciato affermativo. Neppure movimenti come Carta 77 o Solidarnos´c´ che offrirono lo scheletro alle rivolte nei Paesi dell’Est. A cui molti hanno, con stravagante dilatazione analogica, apparentato la primavera araba. Per questo, epilogo impeccabile, fallirà. È frutta acerba, è convinta che la sua gioventù le basti a supplire ciò che le manca. Eppure a diciotto anni il gioco è fatto, l’uomo che saremo esiste già. Sull’apparentemente libero pende l’alea del bis in idem: qualcuno esce dal labirinto e vi ricade subito.

Apparentemente la città è allegra, calma. Eguale ai giorni di marzo. Sulla Avenue Bourghiba onde di giovani marciano ossessivamente avanti e indietro, sotto lo sguardo invidioso dei soldati che presidiano il ministero degli Interni. I caffè sono affollati. Assembramenti si formano sotto gli alberi e discutono, ogni tanto si trasformano in brevi cortei chiassosi, inutili, rituali che si spengono subito. Sono personaggi già tragici questi manifestanti per abitudine, per noia, per angoscia che sarà difficile sistemare. Tutto sembra eguale. Solo il numero delle prostitute, giovanissime, in attesa davanti a interminabili caffè, è aumentato vistosamente. Ogni epoca, ogni rivolgimento ha una città che la rappresenta e ne custodisce l’anima, il soffio segreto.

Tunisi è stata per alcuni mesi la capitale del mondo. Non solo di quello arabo. Tunisi vibrava dei pensieri e delle passioni dell’umanità. Per le sue ore febbrili per la collera del popolo che strappava le pietre dalle strade, si entusiasmavano le folle dell’Occidente, dalla sua vittoria dipendevano gli umori delle masse arabe, per aiutarla si riempivano le piazze di Londra, di Parigi, di Berlino, la bandiera tunisina era diventata la più famosa del mondo. Contro il suo disordine degli spiriti lavoravano instancabilmente i dittatori d’Oriente, tra le rocce afghane e nelle sabbie del Tibesti metteva paura agli architetti del terrore, ora che quello che era stato seminato nelle tenebre era mietuto in una luce implacabile. Il mondo vibrava per lei, di una tenerezza avida, che sembrava sfuggire al tempo e che certo le sopravviverà. La maledivano e la benedivano e sognavano di imitarla questa piccola capitale, che da almeno mezzo secolo, dai tempi di Bourghiba non contava, in fondo, niente.

Poi un mattino i giornali di tutto il mondo diedero la notizia della vittoria, raccontarono della fuga di Ben Ali e di come i parenti, gli avidi parenti del dittatore che avevano spolpato il Paese si erano rifugiati a Eurodisney. C’è sempre un po’ di grottesco nelle tragedie. E allora le manifestazioni davanti al ministero degli Interni si fecero più rade. Cessò anche il movimento di formiche di coloro che avevano saccheggiato i palazzi fastosi della mafia presidenziale. I giornalisti che avevano occupato l’Hotel Africa a fianco del ministero (quale rivoluzione è stata più comoda di questa da raccontare?!) partirono: c’era l’Egitto che tumultuava, c’era la Libia in guerra, c’erano mille altre rivoluzioni da raccontare a ogni angolo del mondo arabo. Da quel giorno la capitale del mondo smise di esistere.

I ragazzi della rivoluzione, fragili atlanti che l’avevano sostenuta con le braccia levate, tornarono a scuola, contando i giorni che li separavano dagli esami finali, altri ottantamila con il pezzo di carta e la garanzia di essere disoccupati: come prima. Non ci potevan pensare senza serrare i pugni. Quelli della Medina ripresero i loro traffici tra le viuzze sempre coperte di immondizia. I politici, gli stessi, solo che adesso i partiti erano un centinaio e spuntava qualche faccia nuova tornata dall’esilio ma avevano fatto in fretta ad ambientarsi, ripresero le interminabili trattative nei salottini discreti della presidenza del Consiglio. Duttili, sottili, labirintici, barocchi. Stia quieto il Paese. In fondo avrà sempre bisogno di prudenti e assennati visir. Gli ortodossi applaudono.

A Cartagine i giardinieri pagati dieci dinari al giorno ripresero a pettinare l’erba dei campi da golf e i buttafuori dei locali notturni a sbirciare la scollature delle ragazze ricche. Alla polvere e alle immondizie della dittatura defunta si aggiunsero un secondo strato, e poi un terzo, senza fine.

Solo alla moschea c’era più gente che prima e più ragazzi che osavano esibire la barba e il costume all’afghana. I fondamentalisti: gente che crede che noi non crediamo a niente, loro con le certezze assolute, gli altri, che sprofondano nelle mollezze. E allora gli abitanti di quella che era stata per poco la capitale del mondo provarono una sensazione indicibile di vuoto. Chi si era battuto nelle strade, tra lacrimogeni e bastonate, avvertiva una strana angoscia. Era una sensazione assurda, in fondo: perché questa angoscia se avevano vinto e la morte era passata oltre?

Ci pensate cosa abbiamo fatto, dannazione, e da soli, senza aiuti? Abbiamo sollevato il carico più pesante del mondo, abbiamo separato la verità dalla menzogna, abbiamo aperto e dettato la strada, un mondo immenso di milioni di uomini, libici, egiziani, siriani, yemeniti, e giù fin dove arriva la parola di Allah si sono incamminati sulla nostra strada e ci hanno imitato. Provate voi occidentali, a farlo!

Sono cose che accadono nelle fiabe, e questa forse lo era.

Fonte: http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/419260/

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