Identità, storia e radici in un piatto di pasta

La pastasciutta come metafora dell’universo culinario e del sistema sociale. Incontro con Massimo Montanari, medievista e studioso di alimentazione, che spiega come una pietanza racconti chi la produce.

Buon vino fa buon sangue, e l’uomo è ciò che mangia. Di motti e aforismi gastronomici sono ricche la fantasia popolare e le opere dei filosofi, al punto che le composizioni culinarie, anche le più semplici, paiono celare più di quanto percepiscano occhio e gusto. Ospite del festival Dialoghi sull’uomo di Pistoia, il professor Massimo Montanari* è intervenuto con uno studio dal titolo seducente: “Origini, radici, identità: ragionando attorno a un piatto di pasta”. Ci torna il dubbio che l’appetitoso primo nasconda qualcosa che sfugge a chi lo consumi, forse distratto dal gusto dell’imminente assaggio. Sembrerebbe solo cibo da mangiare, e invece? «Invece è cibo. Non cambia cioè la sua natura, ma possiede qualcosa oltre a quello che appare: contiene la storia, i rapporti fra le culture con il territorio, con il mercato. Il cibo è un punto di arrivo di un percorso lungo e complicato, interessante a ricostruirsi perché arricchisce il nostro rapporto con quello che stiamo per mangiare».

Dunque il cibo non si esaurisce nel gesto del mangiare.
«Sembra un discorso storico, ma è un modo per capire che dentro quel cibo ci sono delle nozioni mentali, dei valori simbolici che vengono consumati. Basta vedere come procedono i meccanismi pubblicitari, che ne fanno oggetto di convivialità e socialità».

Lei parla di identità, radici, origini. Come si relazionano questi temi con una cosa quotidiana quale la pastasciutta?
«Il piatto di spaghetti al pomodoro è un esempio fra tanti, sul quale faccio un gioco di destrutturazione storica analizzando l’origine delle componenti del piatto: ingredienti, preparazione e quanto altro, con l’obiettivo di mostrare come questa pietanza, che percepiamo caratteristica della nostra cultura, dimostri che quello che noi chiamiamo identità non sia una realtà immobile, ma il risultato storico di percorsi lontani e che si intrecciano fra di loro. La cosa metodologicamente rilevante del ragionare su una ricetta, è che ti permette di capire come questi temi siano concetti antitetici: le radici sono una cosa, l’identità è un’altra. Le prime sono all’inizio di una linea, l’identità al suo estremo. La ricerca delle radici non porta al segreto dell’identità, ma fuori, in percorsi altri che incrociandosi come radici di una pianta producono quella che è la tua identità. Nella fattispecie, gli elementi costitutivi degli spaghetti al sugo ci portano in altre culture: la pasta al Medio Oriente arabo del Medioevo, il pomodoro nelle Americhe e nella Spagna dove si facevano le salse. Ecco cosa vuol dire ragionare attorno a un piatto di pasta».

Un’esercizio simile a quello che già fece ne Il formaggio con le pere. Storia di un proverbio.
«Allora il punto di partenza fu il famoso proverbio che vuole tacere al contadino la bontà del matrimonio fra quei due cibi. Andai alla ricerca delle sue origini dal punto di vista filologico, ritrovandolo nella tradizione del Tardo Medioevo e del Cinquecento. Mi incuriosiva perché qualcosa funzionava: se un proverbio si concepisce come depositario della saggezza popolare, non può dunque sostenere che non bisogna far sapere qualcosa al contadino. Ho ricostruito la frase dal punto di vista letterale e all’interno di una cultura fortemente classista, che individuava nel lavoratore dei campi un nemico che doveva restare al suo posto. In quell’ambito una frase del genere voleva dire: manteniamo il segreto di qualcosa e non condividiamolo con lui. Era la manifestazione di un conflitto di classe dei signori contro i contadini. A cui si aggiungono le simbologie dei cibi: la pera era più aristocratica, il formaggio tipico della cultura rurale. Mettere insieme le due cose significava sposare due cibi di appartenenza diversa, curtense e agricola; un atto, cioè quello di nobilitare il prodotto contadino, che soltanto il signore poteva fare».

Il significato del proverbio che è giunto a noi è però diverso.
«Esatto. Con il passare del tempo questo motto diventa un proverbio contadino perché ne viene stravolto il senso: non dirgli di quanto sia buono il formaggio con le pere, perché tanto non ce n’è bisogno. Lo sa già. Questo cambio di significato non vuol dire però che il proverbio venga pronunciato nel modo sbagliato, ma che come molte cose che si dicono, anche un motto acquista un senso a seconda di chi lo pronuncia. Che i testi proverbiali vivono dinamicamente nella bocca di chi li pronuncia».

Alessio Nannini

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