Un omaggio all’autore delle Langhe che racconta il suo rapporto con le atmosfere di quelle terre e i riflessi nei libri e nelle parole: ecco il testo che Eco ha letto a Santo Stefano Belbo dove ha ricevuto il premio intitolato allo scrittore piemontese
di UMBERTO ECO
Se, come vuole Pavese ne Il mestiere di vivere, “non è bello esser bambini: è bello da anziani pensare a quando eravamo bambini”, tra i ricordi della mia infanzia vi sono quelle piazze troppo larghe in piena estate, e sotto il sole le colline monferrine e le prime propaggini delle Langhe. Per questo molto presto ho amato Pavese che, raccontando il suo mito, raccontava anche il mio, dico il mito, come presenza e pregnanza, nel ricordo, di un luogo dove è accaduta un giorno una rivelazione, un santuario di cui la memoria si radica nell’infanzia, in una sequenza di colline in forma di mammella dominate dal gran sole meridiano.
Ma la mia infanzia si è svolta anche tra la nebbia e della nebbia sono sempre stato un devoto. Chi è nato nella nebbia conosce l’espressione spaurita e incredula di chi, cresciuto nei paesi dove fioriscono i limoni, ti sente dire che tu ami la nebbia, non solo gli irti colli e lo sfumare grigiastro delle colline lontane ma persino – Dio ci perdoni – la nebbia sull’autostrada, nella quale noi, uomini della nebbia, si guida confidenti, alla velocità giusta, senza farci atterrire dalle ombre vaghe e giganti che sembrano sorgere all’improvviso là dove pochi istanti prima c’era una linea bianca.
Camminare nella nebbia è più bello che camminare nella neve calpestandola con gli scarponi, perché la nebbia non ti conforta solo dal basso ma anche dall’alto, non la insudici, non la distruggi, ti scivola affettuosa d’intorno e si ricompone dopo il tuo passaggio, ti riempie i polmoni come un buon tabacco, ha un profumo forte e sano, ti accarezza le guance e si infila tra il bavero e il mento punzecchiandoti il collo, ti fa scorgere da lontano dei fantasmi che si dissolvono quando ti avvicini, o sorgere all’improvviso di fronte delle figure forse reali, che ti scansano e scompaiono nel nulla.
Purtroppo ci vorrebbe sempre la guerra, e l’oscuramento, solo a quei tempi la nebbia dava il meglio di sé, ma non si può avere tutto e sempre.
La nebbia è uterina. Ti protegge. Legioni di esseri umani desidererebbero tornare nell’utero (di chiunque, come diceva Woody Allen). La nebbia ti realizza questo sogno impossibile. Ti concede una felicità amniotica. Hai la sensazione che forse un giorno uscirai dalla vagina e dovrai affrontare il mondo, ma per il momento sei salvo. E siccome la nascita è l’inizio del percorso che ti porterà inesorabilmente alla morte, la nebbia è la garanzia (ahimè virtuale) che alla morte forse non perverrai. Basterebbe fermarsi lì. Invece chi ha ventura di starci, vuole venirne fuori. Per questo tutti gli uomini sono mortali.
Ovvio che, nel ritornare alle mie letture pavesiane, nel corso di questa estate, sia andato a cercare in Pavese non solo le colline assolate ma anche la nebbia.
Ho provato una certa delusione perché in Pavese di nebbia ce n’è molto poca. Come può esserci poca nebbia in un autore che la nebbia dovrebbe averla conosciuta in queste campagne e certamente l’avrà conosciuta a Torino?
Confesso che rileggevo Pavese ricordando un’altra nebbia langhigiana, quella di Fenoglio. In Fenoglio la nebbia invade pianura e colline, e sempre, nella sua invadenza, ha una funzione protettiva. È immergendosi nella nebbia (“una nebbia universale, un oceano di latte frappato, che restringeva i confini del mondo”) che il partigiano braccato si sottrae alle pattuglie tedesche. In Pavese di nebbie simili, avvolgenti e protettrici come un piumone, non ne troviamo… E’ sempre fondamentale per il luogo sacro della memoria che esso sia vissuto in piena luce. Se cala la nebbia a dissolvere la visione, l’euforia mitica si ribalta nella disforia esistenziale, e si concepiscono pensieri di morte.
Nel Il compagno (il meno torinese ma certamente il più cittadino dei suoi racconti), di nebbia talora ne appare, ma giustamente per sottolineare momenti di aridità e smarrimento (“mi ricordo un mattino che c’era una nebbia di ovatta, e sembrava che il mondo l’avessero tolto…”, oppure “finii la notte nel caffè della stazione, Tutte le strade erano vuote. Non c’era di aperto che quello. Qui la nebbia era il vapore della macchina espresso, e un odore più freddo che veniva da fuori. Era un odore di carbone e di treni.”)
(….)
Ne Il Mestiere di vivere troviamo questo pensiero: “Esistono gli altri per noi? Vorrei che non fosse vero, per non star male. Vivo come in una nebbia, pensandoci sempre ma vagamente”. Tra i testi preparatori a La bella estate ecco una nebbia torinese: “Imbrunire nebbioso, le ville scompaiono, restano i dorsi scuri, irsuti dei colli, selvaggi, sfumati. A che serve questa bellezza – che cosa significa, almeno?” Ne L’uomo solo si legge “L’uomo solo – che è stato in prigione – ritorna in prigione ogni volta che morde in un pezzo di pane… E anche il vino non sa che di nebbia.” Ne Gli anni trovo, a triste conclusione di un triste amplesso: “Silvia mi disse, quella notte, che dovevo andarmene, o andarsene lei – non avevamo più niente da fare insieme…. Nella penombra io guardavo il tempo passare, sapevo che passava e correva, e che fuori c’era la nebbia…. Quel che lasciavo era una nebbia.” Ne La bella estate vediamo: “Era un pomeriggio corto e freddo, tutto umido di nebbia, che toglieva la voglia anche di andare al campo a vedere la partita.” In Tra donne sole: “A Torino piovigginava. Tutto era fresco, malinconico e nebbioso; se non fosse stato marzo avrei detto novembre.”. Ne Il Mare “I finestrini agghiacciati e gli alberi brulli nella nebbia… Il Po lo aveva passato. Non visto, per la nebbia, ma sentito al rimbombo del treno…. L’ultimo viaggio in Piemonte che avrebbe dovuto esser fantastico, era solo noioso. Fuori gli alberi sparivan nella nebbia. Parevan disegni in grigio su cartone….” In Per le strade di notte si parla della tristezza di una prostituta in una sera piovosa di novembre coi fanali “pallidi attraverso il velo di pioggia e nebbia”. In Lotte di giovani: “Gli muovevano intorno le luci pallide delle vetrine attraverso la nebbia densa ed egli affrettava sempre più, correva quasi, per non sentire il freddo…”
Insomma la nebbia appare sempre a segnare abbandono, sconfitta, disillusione, tristezza. Raramente essa dà origine a qualche saporoso bozzetto monferrino, come in Paesaggio, forse perché scritto al confino di Brancaleone Calabro, dove la nebbia torinese si addolcisce coi balsami del ricordo e della nostalgia: “Quest’è il giorno che salgono le nebbie dal fiume – nella bella città, in mezzo a prati e colline, – e la sfumano come un ricordo. I vapori confondono… Ogni via, ogni spigolo schietto di casa – Nella nebbia, conserva un antico tremore: – chi lo sente non può abbandonarsi.”
Ma in genere è proprio nelle poesie che la nebbia assume la sua funzione depressiva, e sembra accompagnare con le sue folate silenziose la continua e sorniona tentazione di suicidio che pervade e i racconti e le pagine di diario.
Si veda Sono solo, scritto quando Pavese non era ancora ventenne (18 ottobre 1927). “Sono solo, appoggiato nella nebbia – al tronco d’un viale – e non ho che nel cuore – il ricordo di te – pallido, immenso, – perduto nelle fredde luci lontano – da ogni parte tra gli alberi…. Soffrire, solo al mondo, – nella nebbia che avvolge, lontana, – atrocemente, – in silenzio.”
Perché la città è il luogo della disforia? Lo aveva forse ben capito Natalia Ginzburg quando nel 1957, aveva scritto questo Ritratto d’un amico: “La città che era cara al nostro amico è sempre la stessa… Quando vi ritorniamo, ci basta attraversare l’atrio della stazione, e camminare nella nebbia dei viali, per sentirci proprio a casa nostra; e la tristezza che ci ispira la città ogni volta che vi ritorniamo, è in questo sentirci a casa nostra e sentire nello stesso tempo che noi, a casa nostra, non abbiamo più ragione di stare; perché qui a casa nostra, nella nostra città, nella città dove abbiamo trascorso la giovinezza, ci rimangono ormai poche cose viventi, e siamo accolti da una folla di memorie e di ombre. La nostra città, del resto, è malinconica per sua natura. Nelle mattine d’inverno, ha un suo particolare odore di stazione e fuliggine, diffuso in tutte le strade e in tutti i viali; arrivando al mattino, la troviamo grigia di nebbia, e ravviluppata in quel suo odore… La natura essenziale della città è la malinconia: il fiume, perdendosi in lontananza, svapora in un orizzonte di nebbie violacee, che fanno pensare al tramonto anche se è mezzogiorno; e in qualunque punto si respira quello stesso odore cupo e laborioso di fuliggine e si sente un fischio di treni (…) E’ morto d’estate. La nostra città, d’estate, è deserta e sembra molto grande, chiara e sonora come una piazza; il cielo è limpido ma non luminoso, di un pallore latteo; il fiume scorre piatto come una strada, senza spirare umidità, né frescura. S’alzano dai viali folate di polvere; passano, venendo dal fiume, grossi carri carichi di sabbia; l’asfalto del corso è tutto spalmato di pietruzze, che cuociono nel catrame. All’aperto, sotto gli ombrelloni a frange, i tavolini dei caffè sono abbandonati e roventi. Non c’era nessuno di noi. Scelse, per morire, un giorno qualunque di quel torrido agosto; e scelse la stanza d’un albergo nei pressi della stazione: volendo morire, nella città che gli apparteneva, come un forestiero…”
Pavese è morto d’estate. Ma era un’estate in città. Chissà se Pavese avrebbe compiuto il suo gesto finale tra le colline. Guardando queste colline, sappiamo solo che non l’ha fatto.
(29 agosto 2011) © Riproduzione riservata