TORINO
Gli anni sono stati leggeri con lui: ha il volto senza una stropicciatura, proprio come il suo abito grigio di ottimo taglio, e il sorriso del cosmopolita che ha vissuto il mondo senza dissiparsi e lo sa guardare con cauto ottimismo pur avvertendone gli scricchiolii. Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la Letteratura nel 2010, è un intellettuale che alterna il microscopio al telescopio: nelle sue opere indaga gli aspetti più reconditi dell’animo umano e, nello stesso tempo, sa leggere l’ordine del pianeta facendo della realtà della storia il punto di partenza del proprio lavoro. Come accade nel suo ultimo libro, Il sogno del celta, nel quale racconta la vita leggendaria d’un irlandese, Roger Casement, che, seguendo la scia di sangue lasciata in Africa e nell’America del Sud dal colonialismo tra Otto e Novecento, dedica l’esistenza alla lotta senza quartiere contro questa piaga sino a salire, martire di un’idea, sul patibolo.
Se si sforza di leggere, oggi, l’ordine del pianeta, che cosa vede attraverso le sue lenti di intellettuale che, come dice lei, «non ha paura di sporcarsi le mani con la vita»?
«Scorgo, soprattutto, una preoccupante deriva culturale. Il nostro tempo sembra correre cantando verso la frivolezza e la banalizzazione. La cultura ha perso la sua nobiltà, sta diventando intrattenimento. E curiosamente, ma neppure troppo, ciò avviene non nel Terzo Mondo, ma nel Primo. È un’analisi alla quale mi sto dedicando e che sarà il focus d’un mio prossimo saggio».