Enrique VILA-MATAS

13 giugno 2012 —   pagina 11   sezione: FIRENZE

Se c’ e’ una cosa che non manca a Enrique Vila Matas,è il coraggio. Di sperimentare. Di osare. Di fare della sua opera un laboratorio di elaborazione del nuovo, senza gigionerie avanguardiste, ripetitivi modernisti di plastica né vuoti proclami rivoluzionari.

Ai suoi seguaci, che sono tantissimi, lo scrittore sessantetreenne spagnolo chiede altrettanto. Prima di tutto, di mettersi in gioco, sprofondando in romanzie racconti che sono affabulatorie parafrasi del reale. Nell’ ultimo libro, finalista al Premio Von Rezzori, ci invita ad esempio a osservare la vita con i nervi tesi e la lucidità estrema di chi si trova sull’ orlo di un precipizio profondissimo. Lo stesso su cui si affacciano gli Esploratori dell’ abisso, protagonisti di questi racconti che, in bilico sui vuoti d’ esistenza, finiscono per guardare il mondo con gli occhi di una purezza oramai dimenticata. Una metafora della condizione umana in un’ epoca di crisi come la nostra? «Ma quando non c’ è stata una crisi nella storia dell’ umanità? Sì, la metafora c’ è, ma le voglio ricordare che le crisi sono necessarie e possono essere molto creative. Come un dico mio amici scienziato, Jorge Wasenberg, se non fosse stato per la crisi saremmo tutti batteri.E poi io l’ abisso l’ ho visto in faccia, di recente, per colpa di una grava malattia. E quindi ho potuto confermare quello che diceva Nietzsche: “Quando guardi l’ abisso, è l’ abisso che guarda te”. Le giuro che mi sento spiato. Chissà, forse non avrei dovuto scrivere questo libro». Esploratori dell’ abisso segna il suo ritorno al racconto. «Rispetto al passato, la nostra esperienza moderna è molto frammentata, si è fatta molto fragile: per questo il racconto si adatta meglio alla vita incompleta di questi tempi. È stato proprio un italiano, Tabucchi, il primo a insegnarmi il cammino verso la scrittura della frammentazione. Da lui ho capito che racconto è uno spazio letterario dove ancora si può trovare una specie di bagliore, un lampo, un flash con una curiosa, strana aderenza alla realtà». La stessa “forma racconto”, complessa e lancinante al tempo stesso, potrebbe rappresentare l’ abisso vertiginoso con cui uno scrittore dovrebbe avere il coraggio di confrontarsi. «L’ abisso è collegato alla paura e Cervantes scrisse che la paura ha molti occhi. Da uno di questi occhi è nato il racconto moderno. “Al principio fu la paura” scrisse Cortazar riferendosi a Poe. Poe temeva l’ oscurità e si rifugiò nel laudano e nell’ alcol, da lì nacquero tutti i suoi racconti del terrore, e con quelli il racconto moderno. Come lettori noi avviciniamo i racconti di oggi con uno dei tanti occhi della paura». Nel racconto Perché lei non lo ha chiesto l’ artista francese Sophie Calle le chiede di scrivere una storia che lei stessa rivivrà nella realtà. Che rapporto c’ è dunque tra letteratura e vita, letteratura e realtà? «Niente mi terrorizza quanto mentire. Io vivo nella letteratura per cercare verità parziali che compongano la mia verità generale. E impossibile immaginare vita e letteratura separati. Perché lei non l’ ha chiesto si colloca nella parte migliore della mia opera, il suo precedente più alto è il romanzo Un’ aria da Dylan dove credo di essere riuscito, finalmente, e in modo completo, a far coincidere il teatro della vita con la letteratura. Sa come sono scivolato nel mondo della finzione? Pubblicando interviste inventate su Fotogramas. La prima fu a Marlon Brando. Il gioco è stato scoperto solo poco tempo fa. Tutti pensavano che fossero reali». Le ossessioni sembrano essere il filo logico delle sue opere. «Sono perfettamente d’ accordo. E aggiungerei anche che quel filo logico ossessivo permette di leggere tutto ciò che ho scritto come un testo unico nel quale si racconta – da diverse angolazioni – la storia immaginaria della letteratura contemporanea. I miei racconti sono una ricostruzione sarcastica e appassionata dei luoghi, dei sogni, delle ossessioni degli scrittori, dei lettori, dei traduttori, dei librai, degli editori e dei critici. Come se tutti questi personaggi formassero la ciurma del Pequod e cercassero il Moby Dick del XXI secolo». Una delle sue ossessioni è Joyce. «Mi creda, questa è una forma per mascherare il fatto che, in realtà, adoro Samuel Beckett. Lo si scopre nelle pagine finali di Dublinesque. Però sì. È vero. Appartengo al molto nobile ordine dei Finnegans, scrittori spagnoli che ogni anno celebrano a Dublino il Bloomsday». Ha scritto: gli autori deludono i lettori, ma può accadere anche il contrario. «Credo che ci sia in primo luogo un lettore veramente passivo, educato e plasmabile dalla tradizione romanzesca egemone. Poi c’ è un lettore che cerca un mondo sostitutivo a quello reale, e che mai vivrà. Ancora, c’ è colui che, guidato dalla sua sincera ansia di sapere, spera di trovare nei libri certi insegnamenti. E, infine, c’ è stato Kafka che dai suoi lettori esigeva lo stesso esercizio su cui si basa la sua opera, e che non era altro quel tipo di immaginazione capace di creare una specie di natura altra a partire dalla materia offerta dalla natura vera. Io chiedo in ogni momento ai miei lettori uno sforzo di immaginazione reale, moderna, attiva». – FULVIO PALOSCIA

Fonte: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/06/13/enrique-vila-matas.html

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