ECCO, quello che si può leggere sul volto di Dominique Strauss-Kahn mentre sta in tribunale e viene a sapere che resterà in carcere, che nessuna cauzione lo tirerà fuori di lì, che non solo una grande avventura politica finisce in quell’aula ma una vita libera, una reputazione politica nobile. Ha la barba sfatta, gli occhi sperduti, la bocca come di chi d’un tratto s’accorge d’aver bevuto veleno, i tratti legnosi del caduto, colpito da nemesi inaudita. Eppure quel volto non appartiene a un uomo ignaro, incosciente di sé e del paese dove lavora, colto di sorpresa dalla vastità del delitto (tentato stupro, aggressione sessuale, sequestro di persona: non sono accuse minori).
Strauss-Kahn sapeva com’è fatto il mondo, conosceva l’America e una giustizia che non concede impunità ai potenti e anzi spettacolarizza l’uguaglianza di tutti davanti alla legge (lo si è visto nel caso del finanziere Madoff, di Spitzer costretto a dimettersi da governatore di New York per un giro di escort). Conosceva a perfezione, come tutti coloro che sono ai vertici del potere e non sono stupidi, che ogni sua mossa era da anni spiata con occhio non solo curioso ma avido, spesso vendicativo. Conosceva anche i propri avversari, e ne aveva tanti sia in Francia sia altrove, da quando era direttore del Fondo monetario internazionale e aveva cominciato ad affrontare a modo suo, controcorrente, una crisi economica che tutto aveva messo in forse, e in primis l’ideologia stessa del Fondo. Dostoevskij ci fornisce il ritratto più calzante
di quel che DSK è divenuto in queste ore: un potente scaraventato a terra, un uomo che ha sfidato il destino e che di fatto è un suicidato. Più precisamente: un giocatore d’azzardo che non gioca a casaccio, ma compulsivamente.