La scrittrice che sceglie l’ arte di dire: no grazie / L’ Italia che resiste

21 settembre 2011 —   pagina 1 – 61   sezione: PRIMA PAGINA

NON ci si dimette da Napoli né dalla vita. Non ci si dimette dall’ Italia, nemmeno da questa povera Italia di sciacalli di terz’ ordine in pasto sul cadavere caldo. Non si può, tecnicamente. Ci si può tutt’ al più appartare. Vivere «come ai margini remoti di uno stagno» dove più lente e meno crespe arrivano le onde della barbarie trionfante.
Un tentativo di salvezza: stare ai margini, abitare la provincia estrema, militare nella propria esistenza, nella propria idea di famiglia e di comunità. Adottare le parole di senso nella vita di ogni giorno e adattarle come un abito al proprio corpo. «Quando il confronto è impossibile non fare niente è ancora la forma più efficace di azione politica». Non fare niente che non sia resistenza individuale. Conservare il piacere della vigilia, a teatro stare nella tensione della prova generale e disertare il rito vacuo della prima. Al museo pagare in fila il biglietto e rifiutare il passaggio per gli ospiti. Dimettersi da un incarico che imprigiona la passione e spegne la speranza. Quello sì, si può. Non chiedere niente indietro, strappare la tesserae buttare la scheda. Tornare a casa. Dopo la delicatissima e feroce emozione de Lo spazio bianco esce di Valeria Parrella Lettera di dimissioni. Una lettera di congedo lunga un volume intero, 180 pagine per spiegare quello che normalmente ciascuno di noi scrive in due righe, quando ha la forza di farlo: «Preferirei di no, a queste condizioni no». Tutto il resto rimane non detto, ché tanto non c’ è chi sappia e che voglia ascoltarlo, e invece eccolo qui risuonare limpido proprio come l’ avremmo detto se avessimo potuto. Con quella lingua che sa di mare e di Napoli e di Ortese, che punge come una medusa, taglia come l’ eco di un’ invettiva di Pasolini e poi torna morbida di parole domestiche, di madre e di cucina, Parrella racconta la storia di Clelia: che è la sua ed è quella di tutti, è la storia dell’ Italia com’ è diventata,è il ritratto politico e morale di un Paese che non si può smettere di amare ma dal quale ci si deve difendere. Il paese sconcio dell’ interesse privato e del guadagno repentino, dell’ incompetenza e della maldicenza, della cattiva educazione che prima ancora delle tentazioni corrompe e consuma chi ci vive, costrettoa ripararsi, appunto, per sottrarsi. O a stare dentro e ballare lap dance. «Tutta la partita si gioca sul piano della responsabilità personale». Così si chiude la lettera che ha appena finito di raccontarci la storia di quattro generazionie di un secolo, di una città che non c’ è più, di una famiglia e di un’ idea – il comunismo, “siete proprio comunisti”, “eravamo davvero comunisti” qualunque cosa significhi ed ecco cosa, meridionali e comunisti – per approdare ad un Paese che è proprio quello attorno a noi. Con «un sottosegretario alla cultura terza di tre sorelle che avevano esordito da ragazze conducendo un varietà televisivo», lei che «quindici anni prima andava gettandosi con un deltaplano seguita da una telecamera per in trattenere il pubblico che si ingozzava di ragù» e ora eccola a rappresentare lo Stato. Con un Presidente del Consiglio che fa ciao con la mano, dalla casa sul mare, raggiunto a nuoto dalle ragazze che vogliono recapitargli una lettera accorata di richieste. Col padre, in casa, che «strappa le copertine dei settimanali perché mi da fastidio che entrino queste facce in casa nostra, le peggiori facce d’ Italia». Clelia, la protagonista, entra in scena sul palco principale per una smagliatura del sistema, vince un concorso in tempi in cui i concorsi non si vincono più e anche quando si vincono serve la raccomandazione per certificare di averli vinti. Anziché finire a insegnare in un paese del Nord «da solo a trentadue bambini di tre anni» come suo fratello Alessandro, Clelia fa teatro. Le producono uno spettacolo – quello che ha vinto il concorso, appunto – ha successo, serve una giovane donna a risanare una sala di periferia, è opportuna da esibire dunque le assegnano compiti di frontiera e d’ avanguardia finché non diventa un nome dello star system culturale, acclamata all’ estero e chiamata a dirigere opere liriche proprio come un’ Emma Dante di oggi. Molto, troppo. Al di sopra del giusto, perché «io ero abbastanza brava, più brava della media ma non ero bravissima. Neppure me ne rammaricavo perché in fondo io avevo studiato e amato e quindi davanti allo splendore sapevo ancora inchinarmi». Funzionale per un po’ , poi inutile anzi dannosa. Ingovernabile dunque da espellere. Pericolosa. Estranea. Però così popolare da non poterla allontanare se non con la minaccia, col ricatto sottile: farai male al tuo teatro, se resti. Farai male alla tua azienda, farai male ai tuoi colleghi. Quante volte lo abbiamo sentito?È poi c’ è il teatro, qui, di mezzo. Perché Lettera di dimissioni è un libro di grande passione politica che tiene al centro il teatro: il teatro che «taglia l’ umanità in due come una ghigliottina, al pari del genere o dell’ avere figli o meno». Nel teatro ci sei con il corpo e con la voce, con le mani e con la testa, ci sei tutto o non ci sei. Ed è una bellissima avventura leggere un romanzo che tiene il teatro al centro e lo racconta, sentirne l’ odore e vedere le ombre sottopalco, trattenere il respiro per avvertire quello altrui mentre i denari spariscono, fuori, i Lirici muoiono, gli sciacalli hanno messo le mani sul più prezioso fra i beni comuni, il sapere, la conoscenza, l’ arte, la rappresentazione dell’ animo umano e della sua storia. Se fossero già stati i giorni del Valle ci sarebbe stato anche quello, nel libro di Valeria Parrella, il teatro bene comune così come ci sono i manifestanti per strada contro i tagli al Fondo per lo spettacolo e le mani sudate dei consiglieri regionali che provano e trarre profitto da quel che resta dell’ arte, e sovente lo fanno. La partita si gioca sul piano della responsabilità personale, e allora davvero dimettersi è la strada? Davvero la biografia personale, la propria storia e quella della propria famiglia, le scelte gli amori la casa del sarto il cappotto usurato, davvero è questa la via per resistere – ritirarsi – o tornare a casa è una rinuncia? È il romanzo del tempo di mezzo, questo. Il libro che racconta dove non potevamo più stare quando non sapevamo ancora dove andare. Senza smettere mai di camminare, certo. Fosse anche solo per i quartieri di Napoli, intanto. – CONCITA DE GREGORIO

Fonte:http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/09/21/la-scrittrice-che-sceglie-arte-di.html

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